Never walking shoes by Maria Messina
Ve le ricordate le pozioni magiche delle favolette? Proviamo a inventarcene una a tema musicale: un quarto della Tori Amos più spregiudicata, un quarto della Fiona Apple più delicata, un ottavo della Linda Perry più scanzonata, un ottavo di virtuosismi alla Kate Bush, un ottavo della Elisabeth Fraser più meditativa e un ottavo della Antonella Ruggiero prima maniera. Mescolate bene in una notte di luna piena con una civetta per testimone e, se riesce l'incantesimo, ascolterete la voce di Maria Messina. Che con l'immaginario delle fiabe dark alla Tim Burton sembra stare abbastanza a suo agio. Non per niente è nata il primo gennaio, giorno da lupi mannari. L'anno era il 1982, quello di una grande Mia Martini a Sanremo. Che speriamo le porti fortuna: la cantautrice veronese a dicembre scorso ha inciso «Never Walking Shoes», il suo album d'esordio in uscita il prossimo 17 settembre. È di fatto un'autoproduzione eppure ti colpisce perché, nelle composizioni come negli arrangiamenti, c'è una raffinatezza che non trovi neppure in molti dei materiali più pretenziosi delle major. Conterà il fatto che è figlia d'arte del chitarrista e compositore Pietro Messina che le dà manforte nel disco. Poi ha fatto parecchia gavetta, la ragazza. Scrive in inglese, così da non perdere mai di vista i modelli di riferimento (Tori Amos e Cocteau Twins su tutti). Metti su il disco e ti ritrovi davanti a una intrigante miscela di pop adult oriented, freak folk e atmosfere jazzy. A partire da «Dulcimer», brano che nel titolo omaggia lo strumento feticcio di Joni Mitchell, nel testo discetta di un amore tormentato nel suo prendersi e lasciarsi. Stupiscono le acrobazie esecutive della sezione ritmica composta dal bassista Cristiano Tommasini e dal batterista Bruce Turri e i duelli che la voce della Messina ingaggia con la sezione d'archi composta da Laura Masotto (violino e viola) e Paola Zannoni (violoncello). Anche qui non sarà un caso: la piccola Maria pare abbia studiato violino al conservatorio, intrattenendo un rapporto alquanto conflittuale con lo strumento solista per eccellenza. «Just Dust», primo singolo estratto dall'album, è una divertente declinazione di come la crisi economica infierisca inesorabilmente sulle sorti delle giovani coppie precarie («Avrei voluto pagarti la casa/ avrei voluto fare qualcosa per non lasciarti andare via…»). Si ragiona pure di suicidi mentre l'arrangiamento si perde tra ritmiche che sanno di bossa nova e sviolinate dissonanti. «Thora», con la Messina che al piano dà una bella prova in tre quarti, fa davvero pensare a Kate Bush, «It isn't true» è una ballata algida e drammatica, «You're mother's crying» una ruggente e ironica pop song nella quale l'arrangiamento pianistico è supportato da un organo molto Sixty. Ci piace segnalare «What's a lie», con i suoi continui cambi di marcia, e la ghost track «Note alla Notte» che è l'unico brano in italiano dell'intero album. Una specie di ninnananna ai propri cattivi pensieri notturni, in cui la Messina dimostra di saperci fare anche con la lingua più difficile da mettere in musica. «Pensieri che raduno/ e poi sputo in anelli di fumo». Ah, se a Sanremo ogni tanto ci facessero sentire roba del genere! Ma lì servirebbe molto di più che un incantesimo.